I vecchi schemi non bastano più: il mondo a pezzi sfida la diplomazia della Santa Sede
di Matteo Matzuzzi (Il Foglio)
Quando le truppe tedesche entrarono a Bruxelles, nell'estate del 1914, la Chiesa cattolica si preparava al Conclave che avrebbe eletto il successore di Pio X. Il Papa era ancora «prigioniero in Vaticano» e i cardinali si trovarono subito a risolvere un bel dilemma: chi eleggere? Intanto, bisognava scartare i porporati provenienti dai Paesi in guerra, poi quelli che avevano la nazionalità di un Paese alleato di quello in conflitto, infine i nunzi apostolici accreditati nei Paesi belligeranti. Calcolando che in Cappella Sistina, allora, entrarono solo 57 cardinali, la scelta era limitata e difficile. Il consenso ricadde non a caso su un diplomatico, il cardinale Giacomo della Chiesa, arcivescovo di Bologna con lunga esperienza in Segreteria di Stato. Mite, taciturno, erede della scuola del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, pareva l'uomo adatto per tenere il timone della Chiesa in tempi così oscuri come quelli che si presentavano per l'Europa. Benedetto XV è passato alla storia per la Nota alle potenze belligeranti del 1° agosto 1917, con quell'appello a porre fine alla «inutile strage», che fu accolto malissimo da quanti s'affrontavano nel fango putrido delle trincee. I tedeschi lo accusarono d'essere filo-francese, i francesi d'essere «le Pape boche», il Papa crucco. Eppure lui, Benedetto, non si stancò di operare per la pace: diede mandato di lavorare per i feriti e i dispersi, di aiutare le popolazioni rimaste senza casa, diede fondo alle casse vaticane, cercò di aprire un pertugio che potesse favorire un canale di dialogo – anche minimo – fra le Parti in causa. Il tutto, è bene ricordarlo, in una situazione ancora precaria per la Chiesa cattolica, privata da mezzo secolo dei suoi territori e ancora lontana dal risolvere i problemi con lo Stato italiano. L'azione di Benedetto XV fu un insuccesso, se guardato con gli occhi dell'osservatore contemporaneo. Ma, in realtà, fu il primo passo verso l'implementazione di quella diplomazia del Papa che nel Novecento avrebbe lasciato traccia su tutti i principali stravolgimenti storici e sociali visti e vissuti sul pianeta. Uno per tutti, il crollo del Muro di Berlino, con l'azione determinante del polacco Giovanni Paolo II.
Più d'un secolo dopo, con quella che Papa Francesco ha definito la «Terza guerra mondiale a pezzi», il quadro appare assai complicato e anche la diplomazia della Santa Sede si trova alle prese con un mondo cambiato e non sempre facilmente inquadrabile nei consueti schemi adottati per lungo tempo. Tradizionalmente, la diplomazia della Chiesa si è sempre vantata di essere terza, al di sopra delle parti: quasi «moralmente superiore», verrebbe da dire, dotata cioè di caratteristiche proprie e non riscontrabili in altri attori. Talmente terza che, e lo si è visto nel presente pontificato, ha sempre ripetuto di non voler mediare fra le Parti in causa, bensì di limitarsi a facilitare una mediazione. In sostanza, un attore terzo che mette a disposizione tutto il proprio know-how affinché si giunga a una composizione pacifica e positiva delle controversie. Lo si è visto bene nel negoziato che ha portato gli Stati Uniti e Cuba a porre fine a decenni di scontri a tutti i livelli, con Barack Obama e Raúl Castro che – di concerto – ringraziavano Papa Francesco per il suo lavorio discreto ma efficace. E il Papa «santificava» tale ricongiungimento premettendo una visita a Cuba alla già programmata tappa statunitense, nel settembre del 2015.
Qualcosa poi si è rotto, nelle consuetudini diplomatiche. L'attacco della Russia all'Ucraina ha determinato anche per la Santa Sede una svolta e un disorientamento dal quale ha fatto fatica a riprendersi. Appena Vladimir Putin iniziava i bombardamenti su Kiev, la Santa Sede si limitava – come sempre fatto – a deplorare l'atto ostile, senza nominare l'aggressore, ché facendolo si sarebbe preclusa ogni spazio d'azione. Lo stesso comportamento era adottato dal Pontefice, che però nel frattempo si faceva fotografare mentre entrava all'ambasciata della Federazione russa presso la Santa Sede: un tentativo di arginare sul nascere l'azione del Cremlino. Progressivamente, la diplomazia vaticana si è trovata in una situazione con scarsa possibilità di manovra: pressata dall'Ucraina che chiedeva un'esplicita condanna dell'aggressore e impossibilitata ad agire come agente facilitatore in quanto i settori più conservatori e nazionalisti del Patriarcato moscovita mai avrebbero accettato un ruolo attivo del «Papa di Roma». Le interviste abituali di Francesco, poi, hanno contribuito a creare un clima di diffidenza da parte ucraina: gli accenni alla «Nato che abbaia ai confini della Russia», la scelta di parlare di «bandiera bianca» da sventolare «quando vedi che sei sconfitto» e, da ultimo, la presa di posizione pubblica dello scorso agosto contro la legge ucraina che ha messo al bando la Chiesa ortodossa legata al Patriarcato moscovita. Nonostante le successive precisazioni, è rimasta evidente la freddezza nei rapporti. D'altro canto, anche l'aver bollato il Patriarca Kirill come «chierichetto di Putin» ha alienato almeno parte dell'amicizia delle gerarchie ortodosse.
Non meglio è andata sull'altro fronte della «Terza guerra mondiale a pezzi», quello del Vicino oriente. Dopo il pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre del 2023, la posizione della Santa Sede – e del Pontefice in particolare – è stata messa all'indice sia dalle autorità governative israeliane sia dalle Comunità ebraiche presenti in ogni parte del globo. Inizialmente, al governo di Benjamin Netanyahu non è piaciuta l'equidistanza manifestata dal Vaticano fra le vittime israeliane dei kibbutz e quelle palestinesi a Gaza. Successivamente, dopo la reazione armata d'Israele, la tensione si è acuita e a finire nel mirino sono stati anche i Patriarchi cristiani di stanza a Gerusalemme. Il piano politico si è confuso con quello religioso e gli appelli del Papa per la fine dei raid sulla Striscia hanno portato intellettuali e autorità ebraiche a sostenere che ciò comportava un rallentamento del dialogo interreligioso faticosamente messo in piedi dal Concilio Vaticano II. Si parlava addirittura di un recupero dei vecchi schemi sulla violenza vendicativa veterotestamentaria e dei cliché antisemiti. Da ultimo, l'auspicio di Francesco che si indaghi su un possibile genocidio a Gaza ha ulteriormente aggravato il quadro.
Il mutamento globale, con i conflitti che intersecano piani diversi fra loro (siano essi etnici, spirituali o meramente politici), e l'abuso della comunicazione sui social network – ove sovente lo spazio riservato alle fake news è preponderante – ha reso arduo per la diplomazia vaticana esercitare il suo consueto ruolo calmierante fra le Parti in causa. L'avanzare della demagogia populista corroborata da chiari accenti nazionalistici ha reso di fatto impossibile per la Santa Sede proseguire lungo gli antichi tracciati: il low profile è scomparso, se non laddove è anche la controparte a esigerlo (vedasi il caso dei positivi negoziati con la Repubblica popolare cinese in relazione all'Accordo sulla nomina dei vescovi). L'interventismo della Santa Sade è richiesto, il silenzio non è più contemplato. Il problema è che quando parla, il Papa è immediatamente trascinato nella mischia, issato a baluardo dell'uno o dell'altro campo, rendendone vana l'opera diplomatica. Un bel problema che richiede un aggiornamento a schemi e modelli del presente contesto internazionale, mai come ora fluido e imperscrutabile.