Parlando del bello e del brutto dell’Unione europea, ognuno sceglie la data preferita, come si vede nel dibattito aperto da Robi Ronza su Lisander. Forse si può provare anche con il 1989: perché sì, ci sono il processo istituzionale e l’alternativa tra un’Europa top-down e una bottom-up; ma c’è anche la politica. E, brutto constatarlo, c’è pure la geopolitica, la quale è arrivata come una bomba in un continente che non l’ha presa in considerazione per decenni.
Il 1989 è stato probabilmente l’ultimo anno nel quale l’Europa è stata il centro del mondo. Iniziava la fine di un impero e finivano gli anni della Guerra Fredda: in Germania, simbolo stesso di quell’epoca e delle sue divisioni. Dalla fine della Seconda guerra mondiale e fino a quel momento, gli affari “sporchi” li aveva trattati Washington, con il suo arsenale nucleare, i marines, le navi sugli oceani. Sotto il famoso e capace ombrello, l’Europa aveva potuto pensare a sé stessa, alla propria economia e a cercare di curare le ferite della prima metà del Novecento. Con un certo successo, in alcuni casi notevole. Anche, però, con una dose di verticismo statalista già presente in alcuni manifesti europeisti (Ventotene) e mai del tutto abbandonato.
Mentre, come giustamente sottolinea Ronza, buona parte dei passi compiuti dalla Comunità erano stati frutto di decisioni avvenute senza il coinvolgimento e nemmeno l’obiettivo del coinvolgimento dei cittadini, l’Atto Unico della seconda metà degli Anni Ottanta fu un po’ diverso. Certamente deciso nei vertici dei governi dell’epoca ma inteso a completare il mercato interno, qualcosa che ha beneficiato e liberato da vincoli i cittadini e almeno una parte delle imprese, anche grazie al recepimento di una serie di idee del governo di Margaret Thatcher. La rottura geopolitica del 1989 non bloccò la costruzione del mercato unico, anche se questo resta incompiuto ancora oggi (come ha certificato di recente Enrico Letta): la spinta liberalizzatrice contenuta in parti dell’Atto si esaurì però presto e in compenso aumentò via via il ruolo della Commissione, in quel periodo guidata da Jacques Delors.
A quel punto, la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica crearono nella conversazione politica dei governi europei l’idea che non solo si potesse continuare sulla strada dell’integrazione economica (ma poca apertura e relativa liberalizzazione) per arrivare a una sempre maggiore unità politica (in fondo la Storia era finita) ma radicarono anche la convinzione che l’Europa sarebbe stata il modello per gran parte del mondo. Non solo un continente di benessere e di democrazia ma anche uno nel quale gli Stati avrebbero rinunciato a una parte consistente delle loro prerogative in favore di una federazione. L’Europa, cioè “la patria degli Stati nazionali” nei quali è radicata la democrazia (come ha sottolineato Angelo Panebianco), si poneva come esempio da seguire in un pianeta che si sarebbe via via integrato passando dall’ormai “mondo piatto” dell’economia a un mondo via via più piatto del confronto tra Stati. Ideale mai verificato con i cittadini ma comunque affascinante. Bastava realizzarlo per essere l’avanguardia del pianeta. Il guaio è che dittatori, mezzi dittatori e autocrati non erano della stessa opinione e, come si usa dire oggi, non li abbiamo visti arrivare.
Dal giorno successivo al 9 novembre 1989, l’Europa non è più stata il centro del mondo. Spesso ammirata, altrettanto spesso blandita, ha agito come se lo fosse. Certo, l’allargamento ai Paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica è stato un atto geopolitico in sé, dettato dalla realtà degli eventi e dai legami storici con gran parte di essi. Ma come tale non è mai stato considerato né dai governi e dai partiti politici né dalla grande maggioranza degli esperti e dell’accademia. Più un obbligo morale. Tanto che, fino all’aggressione russa dell’Ucraina, i Paesi dell’Est non sono stati sostanzialmente presi in considerazione dall’Ovest, nonostante la questione geopolitica della minaccia di Mosca la mettessero sul tavolo da tempo e avessero ragione di farlo. Ancora oggi sono diffuse le recriminazioni per la scelta dell’allargamento che, dicono i critici, ha complicato la vita nella Ue e impedito una maggiore integrazione. Mah. Immaginiamo cosa sarebbe successo se, oggi, i Paesi baltici o la Polonia fossero fuori dall’Unione europea sotto la pressione del Cremlino.
L’idea verticista, top-down, scarsamente democratica dell’integrazione europea ha fatto sì che tutto il dibattito sul futuro dell’Europa fosse una questione da regolare al vertice, come ha sottolineato Ronza. E ha preso la forma, soprattutto nei Paesi politicamente più deboli, di un’ideologia dalla quale non si poteva uscire (con il risultato di avere favorito un non insignificante antieuropeismo). È a causa di questa ideologia, interamente focalizzata sulla propria centralità, che le élite del continente hanno guardato per lo più alla punta delle loro scarpe, non hanno visto la crescita dell’aggressività russa, hanno sottovalutato l’involuzione della Cina di Xi Jinping (errori commessi anche negli Stati Uniti) e sono oggi su un’impotente e drammatica difensiva di fronte alle guerre. È stata un’Europa che non considerava quello che succedeva fuori, obnubilata dalle politiche e dalle tecnocrazie interne, molto presa dai passi istituzionali dell’integrazione come se ciò potesse avvenire in un vuoto internazionale. Nonostante i tempi sempre più pericolosi, la famosa “Commissione geopolitica” di Ursula von der Leyen non ha dispiegato le ali: anche l’allargamento ai Paesi candidati all’ingresso nella Ue sembra interessare sempre meno ad alcuni dei candidati stessi ma anche ai governi europei e a Bruxelles. Una palude: nei Balcani, di recente qualcuno ha paragonato la situazione a quella d’epoca sovietica: “c’è una specie di patto, loro ci pagano male, noi lavoriamo male”. Nemmeno allora fu il modo migliore per ottenere buoni risultati.
La soluzione di questa che si hanno buoni motivi di chiamare crisi sta in riforme istituzionali, in cerchi concentrici, in voti a maggioranza? Alcune misure, come l’ultima, sono necessarie. Ma non sembrano proprio sufficienti. Purtroppo, il futuro dell’Unione europea passa, in tempi non lunghi, da ciò che non abbiamo previsto, dall’esito dell’invasione dell’Ucraina. Se Putin dovesse uscirne in qualche modo vincente, la disgregazione della Ue sarebbe probabile, tra accuse reciproche, cambi di governo e di alleanze internazionali e persino possibili tensioni nella Nato e nella relazione transatlantica. La ricomposizione dopo la rottura sarebbe incerta e dolorosa. Il primo obiettivo che la Ue deve darsi oggi è battere Mosca per salvare se stessa. Questo per dire che le modifiche delle regole interne hanno una loro rilevanza ma non sono all’altezza delle sfide del momento (se mai lo sono state). Forse serve un salto di logica rispetto al 1989 e decenni seguenti: It’s politics, stupid.