Alla ricerca di un non-modello per l'università
di Serena Sileoni (Università Suor Orsola Benincasa, Napoli)
Il Professor Lorenzo Ornaghi, dalle pagine di Lisander, ha elencato in maniera puntuale le tante alterazioni del sistema universitario rispetto sia all’ideal-tipo che al tipo storicamente dato delle Università, scalfito in particolare negli ultimi (semplificazione mia, non sua) 20-25 anni. La nostra Università ha molto poco ormai della Universitas da cui prende origine.
Non che sia mai stata la scuola di Atene di Raffaello, ma un che di vero nell’idea di un declino generale del modello universitario c’è e dipende, a mio avviso, da due macro-caratteristiche tipiche che negli ultimi venti anni almeno si sono man mano perse. In primo luogo, un minor rapporto tra gli studenti che frequentano gli ambienti universitari e quelli che sono iscritti ma non ne usufruiscono. Questo ha comportato una perdita di caratterizzazione dell’università come luogo in cui le ore di lezione si svolgono senza soluzione di continuità rispetto alla frequentazione dei dipartimenti e delle loro biblioteche (ora pressoché ridotte al nulla dagli acquisti centralizzati nei poli unici di ateneo), allo studio condiviso, per quanto dispersivo, e alla socializzazione. In secondo luogo, e in maniera collegata, una considerazione dell’università come livello di istruzione superiore, scelto come tale e non come scontata prosecuzione dell’istruzione scolastica.
Non è detto che un’università più accessibile e una modalità di viverla diversa, più solitaria e individualista anche per un dato quantitativo di un maggior numero di iscritti, sia qualcosa di negativo. Anzi. Quello che invece non funziona è continuare a parlare di università come modello di Universitas quando essa ne ha perso, appunto, le sue caratteristiche determinanti.
I nostri studenti ritengono che l’università sia qualcosa che si debba fare, e non che si sceglie di fare. Dato il tasso di abbandono (14,5% per i corsi di primo livello, 8,2 per i corsi a ciclo unico), solo apparentemente ciò collima con il basso numero di laureati che spesso si compara con l’estero. Questo vuol dire che essa, come ha scritto anche il Prof. Ornaghi, ha sostituito come livello di studio quello che un tempo erano le superiori. D’altro canto, è il mercato stesso del lavoro a imporlo. Dove prima era sufficiente il titolo di ragioneria, ora è richiesta una laurea in economia; dove era sufficiente un titolo di geometra, ora è richiesto un titolo di architetto o ingegnere.
Ciò significa che l’università non è più selettiva come nei decenni passati, né nella capacità di dedizione allo studio né nel convincimento emotivo a studiare.
Come un cane che si morde la coda, uno degli effetti di questa liceizzazione è la nascita di sedi universitarie in ogni centro urbano. Non si tratta di una questione solo logistica, ma anche di offerta formativa. Per ogni ateneo, per ogni sua sede vanno individuati docenti, strutturati o a contratto, ai quali è richiesta una quantità di didattica di gran lunga superiore al passato. In quaranta anni, i laureati sono passati da meno di 75.000 a più di 350.000 e i docenti sono raddoppiati.
Una università meno selettiva, sia dal lato docenti che dal lato discenti, non è affatto un’opzione peggiore della precedente. Di per sé, anzi, è un’ottima notizia. È però un’università diversa da come è stata immaginata negli anni Ottanta, quando venne riconosciuta non solo come luogo di libero insegnamento, ma anche come sede primaria della ricerca scientifica.
Vuol dire una università in cui non tutti gli iscritti vogliono essere studenti tradizionali. Non tutti vogliono passeggiare per i corridoi tra un corso e l’altro e usare i servizi tipici degli atenei, dalle sale lettura al ricevimento dei professori. Molti vogliono semplicemente superare l’esame, per i più diversi motivi: per aspirazioni delle famiglie, per motivi di progressione di carriera, perché - per esigenze concrete o avvertite - il titolo di laurea vale quanto valeva il diploma.
A questa diversificazione dei bisogni e insieme liceizzazione dell’università si sono accompagnati altri grandi cambiamenti. Un ruolo delle università sempre più attivo nel territorio, in parte stimolato dalla formula della terza e quarta missione, ma in parte anche naturale e corrispondente a una maggiore complessità dei mercati, nei quali le imprese sono tenute a un continuo rinnovamento delle competenze e delle conoscenze, per poter essere competitive. Le università riescono in questo ad essere portatrici di qualche elemento di novità nella routine lavorativa delle imprese.
Il sistema universitario non ha solo incoraggiato questa espansione, sia dal lato della didattica che da quello delle altre sue missioni. L’ha anche assecondata e sfruttata pensando più alle esigenze dell’offerta che della domanda, come dimostrano la pletora di sedi distaccate, di corsi di laurea e di cattedre dall’improbabile utilità, della concentrazione di attenzione sulla terza e quarta missione, piuttosto che sulla seconda.
Come già scritto, nessuna di queste trasformazioni è di per sé negativa. Solo che, al momento, il sistema universitario pretende di tenere insieme il vecchio modello elitario di insegnamento e ricerca con un nuovo modello molto più diversificato di trasferimento delle conoscenze. Si pensi appunto alla ricerca, che è una delle due missioni tradizionali dell’università. I “prodotti” della ricerca sono oggi molto più variegati di quanto non potessero essere anche solo 20 anni fa. Ad esempio, nelle scienze sociali un buon “prodotto” può essere anche un instant book o un working paper, o – absit iniuria verbis – una newsletter. Eppure, nei settori non bibliometrici i sistemi di valutazione della ricerca continuano ad essere ingabbiati nella classificazione “anvuriana” delle riviste, nella presenza di ISBN, nelle collane di dipartimento, che possono essere anche il contrario di una fucina di idee e di vera ricerca.
Si pensi alle più recenti terza e quarta missione, che indicano una bella realtà, ossia la capacità degli atenei di aprirsi ai territori, alle istituzioni, alla società civile e al mondo produttivo, trasferendo le loro competenze. Queste missioni devono fare i conti non solo con rendicontazioni gogoliane, ma soprattutto con il paradosso secondo cui i professori si dovrebbero dedicare praticamente solo alla didattica e alla ricerca di base, tanto da avere limiti legali o regolamentari per l’esercizio di attività professionali.
Il Prof. Ornaghi ha esposto in maniera molto più analitica di me le cose che non vanno nel sistema universitario. Resta, del suo spunto, la domanda inevasa sul “modello da immaginare”. Io ritengo che vi sia una sola risposta a questa domanda: quello che sarebbe bello si sviluppasse non è un modello univoco, ma tante possibilità diverse (e spontanee) in base alle differenti esigenze a cui l’università risponde. Rispetto a un modello storico piuttosto omogeneo, nel quale l’università era il luogo di perfezionamento del sapere per assicurarsi una conoscenza approfondita (e una conseguente carriera lavorativa di livello) nei settori tradizionali, le università oggi sono molto di più. Sono anche questo, ma non solo questo.
Sono talora le erogatrici del titolo necessario a fare progressione di carriera, ad esempio. In questo, le università telematiche hanno molte chances in più delle università tradizionali di offrire un servizio didattico eccellente e flessibile, rispetto al quale non c’è corso serale in presenza che tenga. Talaltra, sono punti di reti innovative del sapere, che offrono agli studenti percorsi di eccellenza condivisi con altri atenei nel mondo, come nel caso dei dottorati in co-tutela. Possono essere centri di elaborazione di ricerca applicata capaci di collaborare con il sistema imprenditoriale, nei luoghi e nei settori di maggior dinamicità economica. Ancora, possono essere luoghi di riparazione sociale e educazione alla cittadinanza, in contesti territoriali più difficili.
Anni fa, per scegliere dove iscriversi, una matricola andava nelle università che già conosceva (o perché vicino casa o perché “famose”) a ritirare le guide cartacee dello studente. Oggi, ha davanti a sé un’offerta spiazzante. Può andare ovunque nel mondo, scegliere materie impensabili e documentarsi semplicemente consultando internet. Anche la ricerca è diventata molto più accessibile e apparentemente facile. Le università vivono e cavalcano questa trasformazione ma per farlo bene devono accettare che la cornucopia di possibilità non va consumata tutta insieme. È come se dovessero adeguarsi all’idea che la specializzazione non riguarda solo i saperi, ma lo stesso modo di erogazione del servizio universitario.
Per mettersi in questo ordine di idee, occorrerebbe consentire a ogni ateneo di immaginare se stesso in base alla qualità del suo personale docente, alle esigenze del territorio, alla domanda degli studenti. Il “modello” Anvur ha avuto grandi meriti nel fare un po’ di ordine. Fatto questo, è forse ora di pensare a ri-responsabilizzare gli atenei e le persone che li animano, in maniera diversa dal passato, ad esempio riportandovi le scelte di selezione del personale docente in maniera molto più collegata all’erogazione dei fondi ordinari. Tutte cose che si possono realizzare, se solo si smettesse di credere che tutte le università debbano rispondere a un unico modello.